Milan, Ibrahimovic: “Il gioco è felicità. Dove arriveremo? Iniziamo bene il 2021…”

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Uno Zlatan Ibrahimovic come raramente si è visto nel corso degli anni è stato intervistato dal Corriere della Sera. Lo svedese, che al momento è ancora alle prese con un infortunio muscolare che lo dovrebbe vedere tornare in campo ad inizio gennaio, è quindi più libero da impegni e ha parlato, come al solito, molto di se.

Una lunga, lunghissima intervista. Gli argomenti? Poco calcio, alcune previsioni e, soprattutto, tanto Ibra.

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“Io, Ibrahimovic, 39 anni, felice”

Chi sei?
«Zlatan Ibrahimovic, 39 anni».
Certo. Un po’ lo sappiamo. Ma tu chi sei veramente? Il ragazzo della periferia svedese o la star planetaria?
«Sono sempre quel ragazzo nato lassù che ha portato la sua borsa in giro per il mondo e ha fatto una grande avventura».
Perché si era innamorato del pallone.
«Nel campo di calcio siamo tutti uguali. In ogni angolo del mondo. Entri, palleggi, nessuno ti chiede da dove vieni, di chi sei figlio, che opinioni hai, quanti soldi porti in tasca. Sei lì, ci provi, basta. Sai giocare? Vai avanti, bravo. Non è che ti possono raccomandare».
Detto così, sembra un posto perfetto.
«Come idea sì, tra ragazzini sì. E non ci sono differenze sociali, culturali, geografiche. Un campo, due porte, vediamo chi segna di più. Puoi essere nel cortile o a San Siro: il gioco è felicità».
Ancora adesso? Sei contento come una volta?
«Devi, devi, devi esserlo. Siamo felici e dobbiamo rendere felici le persone. La gioia del calcio ci prende e contagia tutti. Pensa agli stadi: che passione, che esplosione».
Devo immaginare più che pensare: gli stadi sono chiusi da mesi, la pandemia li ha sbarrati.
«E ne soffriamo molto. Noi dobbiamo portare un messaggio positivo, un po’ di fiducia».
Il calendario 2020 alla lettera “I” ha Ibrahimovic. Un Milan a pezzi, grande nome e grande crisi, un campione quasi 40enne che afferra un gruppo di giovani e lo spinge in alto. Ma dove arriverete?
«Intanto dobbiamo cominciare bene il 2021. Poi andare avanti una partita alla volta, come fosse allo stesso tempo la prima e l’ultima della vita».
Ma è una cosa possibile, Ibra?
«Lo dico in un altro modo? Avere voglia. Di più, avere fame: sempre, tutti i giorni, ogni momento».
La fame del ghetto di Malmö, sempre quella, in un mondo con i capelli biondi e gli occhi azzurri?
«Qualsiasi cosa abbia fatto finora non importa, ogni volta devo dimostrare chi sono».

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Ai Gazzetta Sports Awards hai vinto il premio categoria “Leggenda”. Collegato con il nostro editore, Urbano Cairo, hai pronunciato la parola impossibile: scudetto.
«La squadra deve avere il coraggio di sognare. E io dico che può e vuole fare ancora di più».
In questi giorni hai deciso di parlare solo con 7, mondo Corriere, e con la Bbc.
«Mi cercano in tanti… Anche la Bbc mi chiederà fino a quando andrò avanti: continuerò a giocare finché riuscirò a fare quello che sto facendo adesso».
La fiducia in te stesso non manca, diciamo. Io sono il calcio, che era il titolo soft del tuo libro. «Dio è tornato e vi guarda dall’alto», come hai scritto sui social affacciato al balcone. Anche vero che 45,8 milioni di follower su Instagram non sono pochissimi…
«Che vuol dire? Stai scherzando? La parola è sbagliata».
In che senso?
«I miei non sono follower, sono believer. Come lo traduci?».
Non so, direi seguaci o qualcosa del genere.
«Di più e meglio. Persone che credono in me. Non sono io che le cerco, sono loro che mi vogliono, c’è una bella differenza».
Bene, Zlatan. Però i colleghi del Corriere Arianna Ravelli e Carlos Passerini, che sanno tutto di Milan e di calcio, dicono che quest’anno hai avuto paura anche tu.
«Parliamo dell’epidemia, del Covid?».
Sì, quando l’hai preso e hai saltato qualche partita. Ti sei preoccupato?
«Ovvio. Quando all’inizio mi è capitato, ero abbastanza tranquillo, quasi incuriosito, vabbè, voglio vedere cosa è questo Covid. Ha colpito tutto il mondo, una grande tragedia, adesso è arrivato da me. Ero a casa ad aspettare, vediamo cosa succede».
E quindi? Spiega, se puoi, non hai mai raccontato i dettagli.
«Mal di testa, non fortissimo ma fastidioso, una cosa tosta. Ho anche perso un po’ il gusto. E stavo lì tutto il tempo, a casa, incazzato, non potevo uscire, non mi potevo allenare bene. Stare fermo è terribile».
Un leone in gabbia, per citare te stesso.
«A un certo punto parlavo con la casa e davo i nomi ai muri. Diventa un fatto mentale. Ti fissi e ti immagini tutti i mali addosso, anche quelli che non hai. Una sofferenza per quello che senti e per quello che pensi di sentire».
Hai girato anche uno spot per la Regione Lombardia.
«Questo virus è terribile e non va sfidato. Distanze e mascherine, sempre».

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Ti manca la famiglia?
«Tantissimo. Ma proprio tantissimo. Sono allo stremo, non ne posso più. Vorrei stare con mia moglie e con i miei figli Maximilian e Vincent, che hanno 14 e 13 anni e vivono in Svezia».
E non puoi andare ogni tanto?
«Ma figurati, ci ho provato. Pioli, il mister, mi ha risposto che non mi posso muovere e che ho famiglia anche a Milanello: dice che lì ho 2 ragazzi ma qui ne ho 25 e hanno bisogno di me».
Pretendi molto dai tuoi figli? Quelli veri, dico, non i compagni di squadra. Pioli mi perdonerà.
«Disciplina anche per loro. Quando giocano a calcio non li giudico come papà ma come calciatore. E soprattutto non devono farlo per me. Hanno la gioia di giocare? Tirano fuori la passione? Si allenano seriamente? E allora va bene».
Tua moglie, Helena Seger, appare pochissimo: una scelta?
«Sì, certo. Non è una calciatrice, è giusto che abbia la sua privacy e la sua vita. Ognuno di noi ha un percorso e non deve farsi travolgere dagli altri».
Non vengono a Milano?
«I ragazzi vanno a scuola. In Svezia è tutto più aperto, il governo ha fatto altre scelte».
È vero che impazzisci se un compagno sbaglia il passaggio?
«Ma sì, sempre, anche in allenamento. Il problema è chi non si arrabbia».
E se fai un errore tu?
«Io non sbaglio mai».
Dai…
«Vabbè, se la prenderanno con me, che problema c’è? Magari con un gesto, una parolina, uno sguardo. Ogni giocatore ha il suo modo di arrabbiarsi. Meglio. Si prende una responsabilità, sente che è tutto importante».
Sulla tua filosofia, «il talento senza fatica è talento sprecato», nulla da dire. È sacrosanta.
«Il talento serve se lo coltivi. Bisogna lavorare, lavorare, lavorare. Ci vuole sacrificio. Cosa sono i 90 minuti della partita? Niente, se non ti sei allenato tutti i giorni e tantissime ore».
Perciò hai fatto il video mentre corri sulla neve?
«Più mi alleno e più sto bene. Lo dico a me stesso e agli altri: non mollare mai. Lo spiego in un altro modo: se non ti arrendi, vinci».

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E torniamo al ragazzo di Malmö, cappello calato fino agli occhi e palazzoni popolari alle spalle. Svezia meridionale, periferia del welfare, figlio di migranti jugoslavi, infanzia complicata. Papà musulmano, nato in Bosnia, e mamma cattolica, arrivata dalla Croazia. E la tua religione?
«La religione del rispetto per gli altri. Per tutte le fedi, per tutte le opinioni. Così sono cresciuto e così la penso adesso».
Stai bene qui a Milanello, dove ti alleni?
«Benissimo, mi sento a casa. Ci sto volentieri, sono giornate piacevoli, le persone ti vogliono bene. Dirigenti, mister, compagni, comunicazione, qui funziona tutto».
Ma è vero che ti hanno dato la camera di Berlusconi?
«Non esageriamo. Però mi trattano come un comandante».
Stai dicendo che vuoi restare al Milan a vita?
«Dico che sto veramente bene, però si vedrà. La vita va avanti e non sai cosa succede. Non ho questo ego così gigantesco da dire che deciderò soltanto io: la mia famiglia è più importante di tutto».
E non ti piacerebbe giocare la Champions?
«A chi non piacerebbe… se posso restare, lo faccio».
Ami sempre Milano?
«Eh sì. Quanto si vive bene. Dieci anni fa non era così: l’ho ritrovata più gioiosa, vivace, internazionale. La pandemia ha bloccato quasi tutto ma io dico che è soltanto una parentesi. Questa città poi riparte».
E l’Italia?
«Mi piace praticamente ogni cosa. In tutti questi anni forse sono stato più qui che in Svezia. È proprio la filosofia del Paese, lo stile di vita, che mi prende: è bello anche andarsene in macchina e vedere i paesaggi che scorrono. E il body language? Ne parliamo? Tu capisci le persone anche quando non dicono niente».
La cucina?
«Vorrei mangiare tutto, sempre, a cominciare dalla pasta. Adesso ho scoperto anche il panettone a più gusti, è strepitoso, però lo posso solo assaggiare».

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Primo gol il 30 ottobre ’99. Malmö, Amsterdam, Torino, Milano, Barcellona, Parigi, Manchester, Los Angeles: hai vinto 31 trofei, di cui 11 campionati nazionali. Come è cambiato il calcio?
«È cresciuto, ma forse è anche migliorato: con un clic sui social parliamo a milioni di persone. Anche se forse può essere un problema per le nuove generazioni. Fai meno cose e subito sei più conosciuto. Ma quanto dura? Non lo dico solo per lo sport».
Hai scritto un grande elogio di Maradona.
«Il più forte di tutti i tempi. Icona del calcio, simbolo mondiale. Poi a volte ha fatto decidere il cuore, mentre sappiamo che il cervello è più razionale, più politico, non so se si può dire così».
Pensi anche a te stesso?
«Sì. Non sempre con il cuore fai la scelta giusta».
E il nostro Paolo Rossi?
«Grande persona, grande calciatore. Sai cosa dicono le persone? Allo stesso tempo un gigante e uno di noi».
In Svezia ti hanno dedicato una statua e un cocktail.
«Il cocktail non lo sapevo neanche io».
Hai 39 anni compiuti, scendi in campo e cambi le partite: l’età esiste?
«No, non esiste. È tutta e soltanto una questione di testa. Buone feste a tutti».

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