Venezia, Caldara si racconta: “Ho pensato di smettere. Milan? Un declino personale”

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Mattia Caldara scava dentro di sé. Il difensore del Venezia infatti si è raccontato in una lunga lettera a Cronache di Spogliatoio in cui ha parlato dei molteplici infortuni che finora hanno continuamente tormentato la sua carriera, a partire dalla sua avventura al Milan fino al ritorno all’Atalanta. Il classe ’94 si è soffermato poi sul momento positivo che sta vivendo attualmente con i lagunari, confessando di essersi messo da parte i guai fisici e di aver ritrovato la serenità e la spensieratezza di un tempo.

Il declino personale” al Milan

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 “Io ero agitato il giorno in cui mi hanno presentato al Milan. Era anche il giorno di Higuaín. Non sapevo dove mi stessero portando, il team manager mi diede una maglietta e io chiesi: «Cosa devo fare? Autografarla?». Mi rispose: «Aspetta e vedrai». Salimmo su un palazzo in Piazza Duomo, mi affacciai e vidi una schiera di persone sotto ad applaudirci, cantare cori. Folle. Lui era pronto, io no. Mi sono goduto il momento, ma se me lo avessero detto prima probabilmente non sarei salito lassù. Non faceva per me. 

Arriva un sabato, un sabato come gli altri. C’è allenamento, durante uno scatto sento un dolore lancinante al tallone. Penso: «Chi diavolo mi ha colpito?». Mi volto, ma c’è solo Patrick Cutrone a due metri di distanza. «Come ha fatto a prendermi!?», non capisco. E invece realizzo che no, non è stato nessuno. Il mio tendine d’Achille aveva ceduto. Non avevo sensazioni pregresse, fastidi, dolore. Quella è stata la prima, vera botta mentale. Ho compreso che non sarebbe stata una cosa da poco.

Non sapevano se operarmi, erano giorni confusi e io ero in balia di tanti punti interrogativi. Il tendine era ancora attaccato al 10%, volai in Finlandia dal prof Orava che mi consigliò di non operarmi. Così sono stato 50 giorni con il gesso: fermo, immobile, senza poter fare niente. Privato per la prima volta di giocare a calcio. E per noi calciatori, il calcio è la vita. Un primo blackout. Mi misi l’anima in pace: non c’era niente da fare.

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Dopo 5 mesi inizio a stare meglio. Era ormai aprile. In allenamento sento che ancora non è finito tutto, ma miglioro. Finalmente torno in campo: c’è la Coppa Italia contro la Lazio. Durante la partita sembrava che nei mesi precedenti non fosse accaduto niente. Mi sentivo bene, eccome. Tutto il dolore si era sciolto all’improvviso: «Cavolo, sto così bene…». In settimana mi alleno al massimo, fiducioso. Ero appena tornato dopo 150 giorni senza calcio. Faccio un contrasto e niente, il legamento crociato collaterale decide di cedere. Buio.

Mentalmente era come se fossi stato colpito da un meteorite. Da una spada che mi aveva appena trafitto. Lo sentivo: c’ero quasi. E invece eccolo, di nuovo, il baratro. Una botta ancora più dura della prima. Maligna, ipocrita. Era maggio, avevo già perso una stagione, quella del grande salto. Mi servirono alcuni giorni per realizzare. Proprio in quel momento iniziò anche il declino personale. Andai a Roma per fare riabilitazione, tornando a Milano a settembre inoltrato. Mister Marco Giampaolo, di fatto, non l’ho neanche conosciuto, perché quando iniziai a essere più presente a Milanello, lui fu esonerato. Arrivò Stefano Pioli. Erano passati già tre mesi, ne servivano ancora due. Feci due amichevoli con la Primavera, ma lo sentivo: il ginocchio non stava bene. Sicuramente non era al 100%. Serviva tempo. Ancora”. 

Il ritorno all’Atalanta e un nuovo infortunio

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Non era normale, così tanti infortuni. Ho cambiato le mie abitudini, provando a migliorare la mia vita: o geneticamente ero di carta velina, o c’era qualcosa che non andava. Cercavo questo errore in ogni parte di me. Mangiavo più verdura, curavo minuziosamente il riposo. Iniziai un percorso interiore insieme alla mia compagna, Nicole. Un cammino di riflessione personale. Lei mi vedeva soffrire: non ero più la stessa persona che aveva conosciuto.

Scivolavo giù, nella corrente, trasportato senza diritto di reazione. Anche lei non stava bene. «Mattia, hai 25 anni e ami il tuo lavoro, ma non riesci mai a giocare sereno e tranquillo come vorresti». Rientravo a casa ed ero triste, vuoto. Sapeva che era quello. Non mi chiedeva neanche più cosa avessi. Se in quelle sere ho pensato di smettere?Sì, una volta sì. Una mezza volta.” 

Al Venezia “un cerchio che si chiude”

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Qui a Venezia sto benissimo. Certo, è una città particolare, meravigliosa. Andiamo allo stadio in barca, siamo uno spogliatoio super multiculturale. Dall’Israele alla Finlandia, dal Suriname all’Islanda, fino all’Argentina. Maenpaa, ad esempio, dice che ci alleniamo troppo, lui non ci era abituato. Loro, i nordici, non hanno bisogno di musica o rituali di concentrazione. A volte vorrei rubare la loro spensieratezza. Alcuni giorni fa abbiamo giocato contro la Roma. Ho segnato, non accadeva da 3 anni, 10 mesi e 26 giorni. Un tempo infinito. Se guardate il fermo immagine della mia esultanza, è proprio sotto allo striscione del ‘Roma Club – Bergamo’.

Una casualità incredibile, un cerchio che si chiude. C’erano anche Nicole e Alessandro allo stadio: ‘Siamo felici, perché ti vediamo come prima di questi tre anni. Anche io e te, siamo un’altra coppia. Sei un’altra persona. Felice, finalmente’. Senza di loro e senza i miei genitori non ce l’avrei mai fatta. In fondo è stato solo un gol. Per me è stata una liberazione. Ne avevo proprio bisogno. Più dell’ossigeno. Avevo lottato una vita per essere lì, non potevo appallottolare e gettare tutto nel cestino come un pezzo di carta pieno di parole a caso. Ero io a dovermi togliere la nebbia dalla testa. Mi sentivo limitato. Dovevo uscirne.”